Questa intervista è dedicata a Antonina Nafi De Luca, modista, ovvero creatrice di cappelli, turbanti e fascinators nel suo atelier Altalen prima a Milano e adesso trasferito a Roma.
Seguendo la traccia segnata dal cappello-scarpa che Elsa Schiaparelli realizzò con la collaborazione di Salvator Dalì, si intuisce che l’arte e la moda si sono spesso unite per creare opere straordinarie, dove il cappello resta l’accessorio che meglio definisce la personalità di chi lo indossa. Mettersi un cappello è come entrare in una nuova dimensione, dà la possibilità di trasformare sé stessi e diventare qualcun altro.
Questa “punteggiatura” visiva esalta il vocabolario degli stili nella moda e Antonina Nafi De Luca, attraverso le sue creazione, svela altre meravigliose proprietà: il cappello come terapia per l’anima, meglio conosciuta come Hat Therapy. Provare per credere.
Paola Lambardi: La mia prima curiosità è l’origine del tuo nome. Puoi raccontarmi per favore come nasce?
Antonina Nafi De Luca: Il mio nome è Antonina De Luca. Ho vissuto per un periodo in Africa dove ho sposato un uomo senegalese con solo rito religioso e il marabout durante la cerimonia mi ha dato questo nome: Nafi. Mi è piaciuto tantissimo, ho deciso di tenerlo anche dopo la fine del matrimonio e l’ho inserito nel mio precedente brand di cappelli Nafi De Luca.
PL: Come ti sei formata per diventare modista?
ANDL: Sono un’autodidatta. Ho fatto il Liceo Artistico e scenografia all’Accademia di Belle Arti a Roma dove sono nata e cresciuta anche se la mia famiglia è di origine siciliana.
PL: All’inizio volevi fare scenografa?
ANDL: Si, ho fatto qualsiasi cosa per respirare l’aria del teatro. L’esperienza più bella e formativa è stata in un laboratorio di realizzazioni scenografiche. Ti ricordi la balaustra di Domenica In? Quella l’ho fatta io! (risate). Ho imparato a realizzare scenografie, tecniche di pittura, il classico metodo dell’imparare, facendo. All’improvviso, mentre preparavo la tesi, ho avuto una specie di folgorazione e ho iniziato a pensare che dovevo fare cappelli. In fondo un cappello è una piccola scenografia: si tratta di comporre una forma, usare il colore e creare un segno visivo. In fondo un cappello è una scultura che cammina con te.
PL: Quindi dalle scenografie ai cappelli?
ANDL: Si, il passaggio poi nel realizzare cappelli è stato da completa autodidatta. Da brava ragazza del Sud sono stata educata in maniera tradizionale alle le arti femminili: cucito, ricamo, uncinetto, grazie a mia nonna che mi ha insegnato fin da piccola! Poi ho frequentato tantissimi vecchietti che sono sempre stati la mia passione. A Milano ne ho conosciuti diversi: artigiani meravigliosi che mi hanno insegnato tante cose, tanti trucchi di questo mestiere e poi ho sperimentato tanto. Nella difficoltà di trovare un modo per fare questi cappelli, ho inventato delle tecniche che poi sono diventate il mio stile.
PL: Te lo ricordi il tuo primo cappello? Abbiamo traccia di lui?
ANDL: Si, certo. I primi cappelli li facevo usando la colla Cervione, un tipo di colla per indurire i tessuti. La usavo per dare la forma al cappello e poi utilizzavo qualsiasi cosa: chiodi, farina, sperimentavo di tutto!
PL: Come sei arrivata a Milano?
ANDL: Tutti mi dicevano che dovevo venire qui a Milano e grazie a un redazionale su Glamour dove hanno pubblicato alcuni miei cappelli, sono stata contattata da una consulente di Barneys New York, Isastella Sartori Corbara.
PL: Un bel trampolino di lancio entrare in Barneys!
ANDL: Si, all’epoca — parlo degli anni ’90 — c’era ancora la famiglia Pressman nella gestione di Barneys e facevano una ricerca incredibile: cercavano artigiani da ogni parte del mondo, lasciavano un grandissimo spazio alla creatività. Quando venivano nel mio laboratorio sceglievano le cose più estreme per fare le vetrine, il direttore creativo era lo straordinario Simon Doonan e insieme si ragionava per realizzare la versione dello stesso cappello della vetrina ma più facile da indossare e da vendere in negozio. È stata una collaborazione bellissima che mi ha permesso di creare il mio marchio, di aprire il mio laboratorio e da quel momento è iniziato il mio lavoro come produttrice in serie anche se i miei cappelli sono sempre stati realizzati a mano da bravissime modiste che lavoravano con me.
PL: A quel punto avrai avuto anche altri clienti…
ANDL: Si, presentavo la mia linea Nafi De Luca negli showroom multi-brand e avevo clienti in tanti paesi, soprattutto Stati Uniti e Giappone.
PL: Il mercato del cappello in Italia sembra essere quasi sparito. Sono ormai poche le signore che lo indossano, spesso solo per certe occasioni, feste o cerimonie. Non sembra neanche appannaggio di una certa aristocrazia, mentre all’estero è un accessorio molto utilizzato. Come mai secondo te?
ANDL: All’estero c’è una comprensione e una cultura della modisteria che qui da noi è stata completamente dimenticata. Il cappello sembra essere relegato a pochi modelli: Fedora, basco e pochi altri. Non dimentichiamo che le crisi economiche di questi ultimi anni hanno trasformato il mercato e abbassato la qualità di qualsiasi prodotto. Nel 2012 ho deciso di chiudere il laboratorio Nafi De Luca e di aprire questo nuovo spazio Altalen con Elena Todros. Altalen è un progetto di condivisione per parlare di cappelli in modo giocoso e contemporaneo, per fare ricerca e per rilanciare questo bellissimo accessorio. Abbiamo avuto la fortuna di trovare questo negozio in un quartiere che ho sempre amato tantissimo, in via Cellini 21 all’angolo con via Lincoln, in zona 5 Giornate, dove ci sono queste case colorate, un luogo magico.
PL: Così è iniziata l’avventura Altalen!
ANDL: Si, rivolgendomi soprattutto ai privati facendo cappelli su misura e collaborando con alcuni brand della moda, per esempio, una delle ultime collezioni l’ho realizzata per Missoni.
PL: Continuare questa attività è come cercare di portare avanti una cultura sartoriale e artistica che sta scomparendo. C’è un richiamo alla conservazione oltre che all’espressione?
ANDL: Si, perché stiamo perdendo la cultura tessile. Per fare un esempio: se fai sentire due cappelli di feltro, uno fatto in lana e l’altro in lapin — dove è evidente la differenza nel costo — noti che ci sono persone che fanno fatica a riconoscere i materiali, non sentono la differenza che è come dire tra la carta vetrata e il velluto.
PL: Stiamo perdendo il tatto, dopo l’olfatto?
ANDL: In parte si. La cultura dei tessuti, delle cose fatte bene ad arte si sta perdendo, ormai è un processo che è iniziato da molti anni.
PL: Sono cambiate anche le materie?
ANDL: Totalmente. Faccio molta ricerca e colleziono accessori vintage perché si trovano dei materiali meravigliosi, indistruttibili. Ormai è quasi tutto prodotto in Cina. Per esempio: i filati di paglia, dove la preziosità è la sottigliezza del filo, siamo passati da 0,03 mm a 3 mm. Tutti i filati si sono ingranditi perché si producono più velocemente, con meno passaggi.
PL: Il tuo lavoro oltre ad essere una forma di espressione artistica, sul confine tra le arti applicati e la scultura, ha però una forte capacità di indagare il proprio sé…
ANDL: Realizzare cappelli è un lavoro che sta tra l’arte e l’artigianato, devi unire la tua ricerca espressiva a determinate caratteristiche funzionali. Devi praticamente camminare con un’architettura sulla testa. Però questo lavoro lo sento anche come una missione per fare del bene. Quando indossi un cappello e ti guardi allo specchio, scopri una parte di te, un momento intimo, molto delicato che prevede un passaggio di consapevolezza. Devi guardare la tua immagine e devi piacerti.
PL: Tu la chiami Hat Therapy. Spiegami questa parte terapeutica dell’indossare un cappello.
ANDL: È una vera terapia per l’autostima! Quando le persone trovano il cappello giusto tendono ad alzare il mento o a fare la classica duck face (risate). Ti devi riconoscere con un corpo estraneo sulla testa! Ci sono tanti livelli di comprensione di questo accessorio. Entrano in gioco molti aspetti: quello esibizionista, quello protettivo... Non dimentichiamo che il cappello ha anche una funzione! Però c’è la parte ludica: provare cappelli diventa un gioco, ti fa stare bene. Ci sono tantissime persone che lo usano per necessità e quando arrivano qui, cambiano completamente umore. Purtroppo chi affronta una malattia grave attraversa un momento, un passaggio cruciale di azzeramento con il proprio corpo, dove spesso perdi i capelli. Come un sannyasin che si rade la testa completamente per ripartire da zero, per rinascere occorre rivedere la propria immagine, il proprio sé, riscoprire una nuova forma di bellezza.
PL: Quindi indossando uno dei tuoi cappelli queste persone riacquisiscono una nuova energia?
ANDL: Si, assolutamente. Ci sono persone vengono in negozio per sentirsi meglio: si provano i cappelli, si fanno due risate e cambia subito l’umore. Per cui c’è questa parte sociale che è lo scopo per cui faccio questo mestiere.
PL: C’è un modo per promuovere il cappello in generale?
ANDL: La cosa che mi piacerebbe comunicare è cercare un modo di approcciare la vita in maniera gioiosa, più simile a quello della natura. Perché uniformarsi a quello che abbiamo intorno? Al grigio dei palazzi? A una specie di mimetismo per non essere visti? La natura se ne frega: quando un fiore sboccia è un’emozione pazzesca! Spara colori e odori meravigliosi che tutti noi amiamo. Anche noi possiamo essere così: il cappello permette di esprimere la propria presenza. Non vedo perché dobbiamo restare nascosti. Facciamo uscire la gioia!
PL: Come mai il cappello è così poco usato nel quotidiano?
ANDL: C’è come uno strano timore a indossarli. La prima cosa che spesso mi dicono i clienti quando entrano in negozio: “Sto male con il cappello”. Poi appena iniziano a provarli si trova subito il cappello giusto! Perché per indossare bene un cappello è fondamentale sentirlo, deve calzare perfettamente fino al punto di dimenticarlo.
PL: Quali abilità sono richieste in questo lavoro, oltre alla passione?
ANDL: La pazienza. Sono lavori lunghi, di precisione. Bisogna amare il cucito.
PL: Quando devi fare un cappello, parti da uno schizzo o dalle materie?
ANDL: Ho un approccio più scultoreo, parto dalla materia. Lo schizzo lo uso come promemoria, per appuntare delle idee.
PL: Facciamo un esempio: se un cliente desidera un cappello per una cerimonia, cosa deve fare? Ti porta il tessuto o l’abito che indosserà per quella occasione?
ANDL: Si, questo è uno dei modi per abbinare il cappello. Poi ci sono gli amanti dei cappelli che fanno il contrario. Scelgono prima il cappello e poi l’abito da abbinare. In ogni caso ti devi innamorare del cappello perché diventa una parte di te. Qui posso proporre qualsiasi cappello su misura, per ogni situazione: per andare al mare oppure per una serata speciale…
PL: C’è una storia, un aneddoto particolare che vuoi raccontare?
ANDL: Ne avrei tanti da raccontare ma in particolare sono rimasta molto contenta di un lavoro che ho fatto per una cliente, una donna elegantissima che doveva andare ad Ascot e mi ha chiesto un cappello con una grande tesa. La sua richiesta era molto precisa: attraverso il cappello doveva far capire che era italiana. Quando è tornata era felicissima. Il cappello che le avevo fatto aveva avuto un successo enorme e si compiaceva del fatto che ovunque lei entrasse, le si rivolgevano dicendo: buongiorno! Lo stile italiano è inimitabile. Vai a vedere la gallery di Ascot e te ne rendi subito conto. Lo dico senza giudizio: lo stile inglese è davvero molto diverso dal nostro.
PL: Hai anche clienti stranieri?
ANDL: Certo. Quando arrivano qui impazziscono di gioia perché capiscono l’unicità e la bellezza di come sono fatti i miei cappelli. Poi vedono i prezzi e sono ancora più felici! Gli stranieri comprano anche quattro o cinque cappelli , a New York con la stessa cifra ne comprano uno.
PL: Se volessi fare un regalo?
ANDL: Bisogna prima di tutto sapere la misura (la circonferenza della testa) e il gusto della persona a cui devi regalare il cappello. Poi sono sempre disponibile a cambiare o a modificare oppure c’è il classico buono regalo così uno sceglie quello che desidera. Qui c’è di tutto: dai cerchietti con veletta, al cappello scultoreo e quello che non c’è si può fare.
PL: C’è una scuola qui a Milano dove si può imparare a fare questo mestiere?
ANDL: Purtroppo non sono molto informata ma so che esistono dei corsi in scuole private.
PL: Hai mai pensato di tenere un corso?
ANDL: Non proprio. Prima del Covid ho organizzato un laboratorio per un addio al nubilato dove le amiche della sposa hanno realizzato un’acconciatura — un fascinator — che hanno poi indossato durante la cerimonia. Appena sarà possibile riaprire i corsi al pubblico vorrei organizzarne altri, mi piacerebbe molto farlo per i bambini.
PL: Guardando i tuoi cappelli mi rendo conto che sono dei bellissimi oggetti, a prescindere dal loro uso.
ANDL: In fondo il cappello è un accessorio ornamentale che si trasforma dall’essere un oggetto personale a un oggetto contemplativo. Racconta qualcosa di te prima, durante e dopo averlo indossato.
PL: Grazie Antonina Nafi per la tua disponibilità a raccontare il tuo lavoro!
Potete seguire Antonina Nafi De Luca su Instagram alla pagina di Altalen_Hats
Questa intervista è dedicata a Antonina Nafi De Luca, modista, ovvero creatrice di cappelli, turbanti e fascinators nel suo atelier Altalen prima a Milano e adesso trasferito a Roma.
Seguendo la traccia segnata dal cappello-scarpa che Elsa Schiaparelli realizzò con la collaborazione di Salvator Dalì, si intuisce che l’arte e la moda si sono spesso unite per creare opere straordinarie, dove il cappello resta l’accessorio che meglio definisce la personalità di chi lo indossa. Mettersi un cappello è come entrare in una nuova dimensione, dà la possibilità di trasformare sé stessi e diventare qualcun altro.
Questa “punteggiatura” visiva esalta il vocabolario degli stili nella moda e Antonina Nafi De Luca, attraverso le sue creazione, svela altre meravigliose proprietà: il cappello come terapia per l’anima, meglio conosciuta come Hat Therapy. Provare per credere.
Paola Lambardi: La mia prima curiosità è l’origine del tuo nome. Puoi raccontarmi per favore come nasce?
Antonina Nafi De Luca: Il mio nome è Antonina De Luca. Ho vissuto per un periodo in Africa dove ho sposato un uomo senegalese con solo rito religioso e il marabout durante la cerimonia mi ha dato questo nome: Nafi. Mi è piaciuto tantissimo, ho deciso di tenerlo anche dopo la fine del matrimonio e l’ho inserito nel mio precedente brand di cappelli Nafi De Luca.
PL: Come ti sei formata per diventare modista?
ANDL: Sono un’autodidatta. Ho fatto il Liceo Artistico e scenografia all’Accademia di Belle Arti a Roma dove sono nata e cresciuta anche se la mia famiglia è di origine siciliana.
PL: All’inizio volevi fare scenografa?
ANDL: Si, ho fatto qualsiasi cosa per respirare l’aria del teatro. L’esperienza più bella e formativa è stata in un laboratorio di realizzazioni scenografiche. Ti ricordi la balaustra di Domenica In? Quella l’ho fatta io! (risate). Ho imparato a realizzare scenografie, tecniche di pittura, il classico metodo dell’imparare, facendo. All’improvviso, mentre preparavo la tesi, ho avuto una specie di folgorazione e ho iniziato a pensare che dovevo fare cappelli. In fondo un cappello è una piccola scenografia: si tratta di comporre una forma, usare il colore e creare un segno visivo. In fondo un cappello è una scultura che cammina con te.
PL: Quindi dalle scenografie ai cappelli?
ANDL: Si, il passaggio poi nel realizzare cappelli è stato da completa autodidatta. Da brava ragazza del Sud sono stata educata in maniera tradizionale alle le arti femminili: cucito, ricamo, uncinetto, grazie a mia nonna che mi ha insegnato fin da piccola! Poi ho frequentato tantissimi vecchietti che sono sempre stati la mia passione. A Milano ne ho conosciuti diversi: artigiani meravigliosi che mi hanno insegnato tante cose, tanti trucchi di questo mestiere e poi ho sperimentato tanto. Nella difficoltà di trovare un modo per fare questi cappelli, ho inventato delle tecniche che poi sono diventate il mio stile.
PL: Te lo ricordi il tuo primo cappello? Abbiamo traccia di lui?
ANDL: Si, certo. I primi cappelli li facevo usando la colla Cervione, un tipo di colla per indurire i tessuti. La usavo per dare la forma al cappello e poi utilizzavo qualsiasi cosa: chiodi, farina, sperimentavo di tutto!
PL: Come sei arrivata a Milano?
ANDL: Tutti mi dicevano che dovevo venire qui a Milano e grazie a un redazionale su Glamour dove hanno pubblicato alcuni miei cappelli, sono stata contattata da una consulente di Barneys New York, Isastella Sartori Corbara.
PL: Un bel trampolino di lancio entrare in Barneys!
ANDL: Si, all’epoca — parlo degli anni ’90 — c’era ancora la famiglia Pressman nella gestione di Barneys e facevano una ricerca incredibile: cercavano artigiani da ogni parte del mondo, lasciavano un grandissimo spazio alla creatività. Quando venivano nel mio laboratorio sceglievano le cose più estreme per fare le vetrine, il direttore creativo era lo straordinario Simon Doonan e insieme si ragionava per realizzare la versione dello stesso cappello della vetrina ma più facile da indossare e da vendere in negozio. È stata una collaborazione bellissima che mi ha permesso di creare il mio marchio, di aprire il mio laboratorio e da quel momento è iniziato il mio lavoro come produttrice in serie anche se i miei cappelli sono sempre stati realizzati a mano da bravissime modiste che lavoravano con me.
PL: A quel punto avrai avuto anche altri clienti…
ANDL: Si, presentavo la mia linea Nafi De Luca negli showroom multi-brand e avevo clienti in tanti paesi, soprattutto Stati Uniti e Giappone.
PL: Il mercato del cappello in Italia sembra essere quasi sparito. Sono ormai poche le signore che lo indossano, spesso solo per certe occasioni, feste o cerimonie. Non sembra neanche appannaggio di una certa aristocrazia, mentre all’estero è un accessorio molto utilizzato. Come mai secondo te?
ANDL: All’estero c’è una comprensione e una cultura della modisteria che qui da noi è stata completamente dimenticata. Il cappello sembra essere relegato a pochi modelli: Fedora, basco e pochi altri. Non dimentichiamo che le crisi economiche di questi ultimi anni hanno trasformato il mercato e abbassato la qualità di qualsiasi prodotto. Nel 2012 ho deciso di chiudere il laboratorio Nafi De Luca e di aprire questo nuovo spazio Altalen con Elena Todros. Altalen è un progetto di condivisione per parlare di cappelli in modo giocoso e contemporaneo, per fare ricerca e per rilanciare questo bellissimo accessorio. Abbiamo avuto la fortuna di trovare questo negozio in un quartiere che ho sempre amato tantissimo, in via Cellini 21 all’angolo con via Lincoln, in zona 5 Giornate, dove ci sono queste case colorate, un luogo magico.
PL: Così è iniziata l’avventura Altalen!
ANDL: Si, rivolgendomi soprattutto ai privati facendo cappelli su misura e collaborando con alcuni brand della moda, per esempio, una delle ultime collezioni l’ho realizzata per Missoni.
PL: Continuare questa attività è come cercare di portare avanti una cultura sartoriale e artistica che sta scomparendo. C’è un richiamo alla conservazione oltre che all’espressione?
ANDL: Si, perché stiamo perdendo la cultura tessile. Per fare un esempio: se fai sentire due cappelli di feltro, uno fatto in lana e l’altro in lapin — dove è evidente la differenza nel costo — noti che ci sono persone che fanno fatica a riconoscere i materiali, non sentono la differenza che è come dire tra la carta vetrata e il velluto.
PL: Stiamo perdendo il tatto, dopo l’olfatto?
ANDL: In parte si. La cultura dei tessuti, delle cose fatte bene ad arte si sta perdendo, ormai è un processo che è iniziato da molti anni.
PL: Sono cambiate anche le materie?
ANDL: Totalmente. Faccio molta ricerca e colleziono accessori vintage perché si trovano dei materiali meravigliosi, indistruttibili. Ormai è quasi tutto prodotto in Cina. Per esempio: i filati di paglia, dove la preziosità è la sottigliezza del filo, siamo passati da 0,03 mm a 3 mm. Tutti i filati si sono ingranditi perché si producono più velocemente, con meno passaggi.
PL: Il tuo lavoro oltre ad essere una forma di espressione artistica, sul confine tra le arti applicati e la scultura, ha però una forte capacità di indagare il proprio sé…
ANDL: Realizzare cappelli è un lavoro che sta tra l’arte e l’artigianato, devi unire la tua ricerca espressiva a determinate caratteristiche funzionali. Devi praticamente camminare con un’architettura sulla testa. Però questo lavoro lo sento anche come una missione per fare del bene. Quando indossi un cappello e ti guardi allo specchio, scopri una parte di te, un momento intimo, molto delicato che prevede un passaggio di consapevolezza. Devi guardare la tua immagine e devi piacerti.
PL: Tu la chiami Hat Therapy. Spiegami questa parte terapeutica dell’indossare un cappello.
ANDL: È una vera terapia per l’autostima! Quando le persone trovano il cappello giusto tendono ad alzare il mento o a fare la classica duck face (risate). Ti devi riconoscere con un corpo estraneo sulla testa! Ci sono tanti livelli di comprensione di questo accessorio. Entrano in gioco molti aspetti: quello esibizionista, quello protettivo... Non dimentichiamo che il cappello ha anche una funzione! Però c’è la parte ludica: provare cappelli diventa un gioco, ti fa stare bene. Ci sono tantissime persone che lo usano per necessità e quando arrivano qui, cambiano completamente umore. Purtroppo chi affronta una malattia grave attraversa un momento, un passaggio cruciale di azzeramento con il proprio corpo, dove spesso perdi i capelli. Come un sannyasin che si rade la testa completamente per ripartire da zero, per rinascere occorre rivedere la propria immagine, il proprio sé, riscoprire una nuova forma di bellezza.
PL: Quindi indossando uno dei tuoi cappelli queste persone riacquisiscono una nuova energia?
ANDL: Si, assolutamente. Ci sono persone vengono in negozio per sentirsi meglio: si provano i cappelli, si fanno due risate e cambia subito l’umore. Per cui c’è questa parte sociale che è lo scopo per cui faccio questo mestiere.
PL: C’è un modo per promuovere il cappello in generale?
ANDL: La cosa che mi piacerebbe comunicare è cercare un modo di approcciare la vita in maniera gioiosa, più simile a quello della natura. Perché uniformarsi a quello che abbiamo intorno? Al grigio dei palazzi? A una specie di mimetismo per non essere visti? La natura se ne frega: quando un fiore sboccia è un’emozione pazzesca! Spara colori e odori meravigliosi che tutti noi amiamo. Anche noi possiamo essere così: il cappello permette di esprimere la propria presenza. Non vedo perché dobbiamo restare nascosti. Facciamo uscire la gioia!
PL: Come mai il cappello è così poco usato nel quotidiano?
ANDL: C’è come uno strano timore a indossarli. La prima cosa che spesso mi dicono i clienti quando entrano in negozio: “Sto male con il cappello”. Poi appena iniziano a provarli si trova subito il cappello giusto! Perché per indossare bene un cappello è fondamentale sentirlo, deve calzare perfettamente fino al punto di dimenticarlo.
PL: Quali abilità sono richieste in questo lavoro, oltre alla passione?
ANDL: La pazienza. Sono lavori lunghi, di precisione. Bisogna amare il cucito.
PL: Quando devi fare un cappello, parti da uno schizzo o dalle materie?
ANDL: Ho un approccio più scultoreo, parto dalla materia. Lo schizzo lo uso come promemoria, per appuntare delle idee.
PL: Facciamo un esempio: se un cliente desidera un cappello per una cerimonia, cosa deve fare? Ti porta il tessuto o l’abito che indosserà per quella occasione?
ANDL: Si, questo è uno dei modi per abbinare il cappello. Poi ci sono gli amanti dei cappelli che fanno il contrario. Scelgono prima il cappello e poi l’abito da abbinare. In ogni caso ti devi innamorare del cappello perché diventa una parte di te. Qui posso proporre qualsiasi cappello su misura, per ogni situazione: per andare al mare oppure per una serata speciale…
PL: C’è una storia, un aneddoto particolare che vuoi raccontare?
ANDL: Ne avrei tanti da raccontare ma in particolare sono rimasta molto contenta di un lavoro che ho fatto per una cliente, una donna elegantissima che doveva andare ad Ascot e mi ha chiesto un cappello con una grande tesa. La sua richiesta era molto precisa: attraverso il cappello doveva far capire che era italiana. Quando è tornata era felicissima. Il cappello che le avevo fatto aveva avuto un successo enorme e si compiaceva del fatto che ovunque lei entrasse, le si rivolgevano dicendo: buongiorno! Lo stile italiano è inimitabile. Vai a vedere la gallery di Ascot e te ne rendi subito conto. Lo dico senza giudizio: lo stile inglese è davvero molto diverso dal nostro.
PL: Hai anche clienti stranieri?
ANDL: Certo. Quando arrivano qui impazziscono di gioia perché capiscono l’unicità e la bellezza di come sono fatti i miei cappelli. Poi vedono i prezzi e sono ancora più felici! Gli stranieri comprano anche quattro o cinque cappelli , a New York con la stessa cifra ne comprano uno.
PL: Se volessi fare un regalo?
ANDL: Bisogna prima di tutto sapere la misura (la circonferenza della testa) e il gusto della persona a cui devi regalare il cappello. Poi sono sempre disponibile a cambiare o a modificare oppure c’è il classico buono regalo così uno sceglie quello che desidera. Qui c’è di tutto: dai cerchietti con veletta, al cappello scultoreo e quello che non c’è si può fare.
PL: C’è una scuola qui a Milano dove si può imparare a fare questo mestiere?
ANDL: Purtroppo non sono molto informata ma so che esistono dei corsi in scuole private.
PL: Hai mai pensato di tenere un corso?
ANDL: Non proprio. Prima del Covid ho organizzato un laboratorio per un addio al nubilato dove le amiche della sposa hanno realizzato un’acconciatura — un fascinator — che hanno poi indossato durante la cerimonia. Appena sarà possibile riaprire i corsi al pubblico vorrei organizzarne altri, mi piacerebbe molto farlo per i bambini.
PL: Guardando i tuoi cappelli mi rendo conto che sono dei bellissimi oggetti, a prescindere dal loro uso.
ANDL: In fondo il cappello è un accessorio ornamentale che si trasforma dall’essere un oggetto personale a un oggetto contemplativo. Racconta qualcosa di te prima, durante e dopo averlo indossato.
PL: Grazie Antonina Nafi per la tua disponibilità a raccontare il tuo lavoro!
Potete seguire Antonina Nafi De Luca su Instagram alla pagina di Altalen_Hats