Daniela Lorenzi è stampatrice d’arte, consulente e titolare dell’atelier A14 di Milano. Da oltre venticinque anni si dedica alla produzione, ricerca e diffusione di progetti con artisti nell’ambito della stampa originale e dell’editoria d’arte.
Realizza edizioni a tiratura limitata, libri d’artista, opere installative per istituzioni, musei, gallerie, committenze private italiane e internazionali. A14 è uno spazio fisico nel cuore di Milano che integra l’atmosfera tipica delle storiche stamperie d’arte con le potenzialità delle nuove tecnologie digitali.
Nel lavoro di Daniela Lorenzi ritroviamo un saper fare antichissimo che passa ancora dalla stampa manuale con i torchi calcografici, utilizzata per imprimere segni su carta attraverso una matrice originale incisa con punte, sgorbie o altri processi alchemici esattamente come si realizzava nel '400.
Grazie alla sperimentazione di Daniela e alla continua ricerca da parte degli artisti, queste tecniche e processi di stampa si sono evolute e mutate nel tempo per confrontarsi con la nuova frontiera tecnologica della computer graphic. In questa intervista ci racconta alcuni momenti del suo percorso e come la nuova dimensione digitale sia entrata nel suo lavoro a pieno titolo.
Paola Lambardi: Ciao Daniela ci racconti come hai iniziato a fare questo lavoro?
Daniela Lorenzi: Potrei dire per caso ma nulla è mai un caso. Ho frequentato il liceo artistico Hajech a Milano e un’estate, uno dei miei insegnanti Mario Benedetti, mi ha proposto di raggiungerlo nell’isola di Oland in Svezia, dove teneva dei laboratori di stampa e incisione. Era il 1987. Ho fatto l’Interrail e sono partita. Avevo 17 anni e in questa occasione ho scoperto la stampa e l’incisione. Ho continuato gli studi all’Accademia di Brera dove nel frattempo Mario Benedetti era diventato docente e con il quale ho continuato questo percorso. Per un certo periodo ho anche stampato nel suo studio. Come dico sempre: sono stata contagiata e non sono più guarita. All’epoca, grazie a un amico che faceva il fotografo, abbiamo costruito un tavolo basculante per spostare le grandi pitture materiche di Mario Benedetti e come compenso ci ha regalato un torchio. Ho cominciato così a produrre stampe calcografiche con matrici in metallo in tiratura limitata anche per altri studenti e artisti dell’Accademia. Questo torchio mi ha seguito in tutti gli spostamenti fino ad approdare nel 1994 in uno spazio in corso San Gottardo al 14 che condividevo con un gruppo di amici artisti. All’inizio il gruppo era eterogeneo: c’era un fotografo, uno scenografo, alcuni grafici. Con il passare del tempo la stampa ha preso più spazio e il gruppo si è trasformato di conseguenza. Dal 1995 sino al 2005 è diventata la sede ufficiale della mia stamperia, conosciuta come Atelier 14 e poi come Atelier Quattordici - Grafica Upiglio 22250. In quel periodo ho condiviso la società con il nipote di Giorgio Upiglio che avevo conosciuto quando stavo scrivendo la mia tesi di laurea incentrata sul tema della relazione tra artista e stampatore. Giorgio Upiglio è stato uno dei più importanti stampatori italiani riconosciuto a livello internazionale. Purtroppo è morto qualche anno fa, chiudendo un capitolo importante per la grafica in Italia. È sempre stato un grandissimo sperimentatore e ha lavorato con grandi artisti: Duchamp, De Chirico, Paladino, Burri e moltissimi altri. Era un periodo storico in cui la grafica aveva ancora un valore importante nel collezionismo. Uno dei periodi più intensi passati nella sua stamperia in via Olmetto è stato quando abbiamo stampato le matrici di Wilfredo Lam un lavoro lunghissimo durato almeno un paio di anni.
PL: Cosa è cambiato e cos’è una stamperia d’arte oggi?
DL: L’esperienza con Upiglio mi ha lasciato una grande apertura verso la sperimentazione tecnica e soprattutto il saper creare una relazione tra le persone che permette di creare nuovi processi. Nel tempo le cose sono molto cambiate: la relazione con lo spazio e con questi strumenti è ormai ibrida. Ora si entra dalla dimensione tecnologica per raggiungere a ritroso la stampa tradizionale. La digitalizzazione comporta una differente forma mentis. Per esempio lavorando con i ragazzi mi sono accorta che a volte non sono pronti a un approccio diretto e fisico con il materiale. Allenando la loro sensibilità attraverso queste tecniche, possono capire e imparare moltissimo, non solo a conoscere la carta e le sue reazioni chimico- fisiche ma che esistono dei tempi di preparazione, di asciugatura e questo approccio serve per riattivare i loro sensi che il mondo digitale riduce molto.
PL: In effetti stai parlando di un grosso problema che hanno tutti i nativi digitali…
DL: Direi piuttosto che hanno un diverso approccio. Io sono l’ultima generazione che ha potuto rubare dalle generazioni precedenti, legate appunto al fare dell’artigiano. L’opera d’arte stessa è cambiata da Duchamp in poi. L’opera d’arte e il processo di lavorazione è spesso delegato ad altri. Per tornare alla stampa artistica e alle stamperie, questi luoghi sono stati gli ultimi a mantenere un fare antico perché legati a un’ortodossia dove la matrice doveva essere creata dall’artista altrimenti ne andava del valore e dell’originalità dell’opera stessa. Fatte queste premesse, è chiaro che vivendo nella contemporaneità, si può o, meglio ancora, si deve dire qualcosa di nuovo con queste tecniche di stampa tradizionali.
PL: Alla luce dei cambiamenti artistici, chi si rivolge a te?
DL: Questi nuovi scenari hanno trasformato il mio lavoro. Posso dire che non mi sono mai considerata stampatore e basta. Sento di essere più vicina a un ricercatore perché mi interessa entrare nei percorsi, nei contenuti e nei progetti. Se qualcuno desidera una stampa da una matrice tradizionale non ho nessun problema a realizzarla, visto che le mie ore di volo arrivano da lì. Ciò che mi interessa di più è entrare in relazione. Il mio contributo è aiutare a realizzare un’idea, un progetto e c’è spazio per tutti: artisti, illustratori, grafici, designer, fotografi anche persone non necessariamente del settore. Tutto ovviamente passa attraverso i nostri strumenti o dalle competenze di colleghi professionisti con i quali abbiamo un sodalizio collaborativo. Dico siamo, perché in atelier ho sempre stagisti o collaboratori che chiamo a progetto. In particolare in questi anni Georgia Garofalo mi affianca quasi quotidianamente.
PL: C’è un aneddoto, un lavoro particolare che vuoi raccontare?
DL: Sono davvero tanti i progetti che ho realizzato in 25 anni e con tantissimi artisti…
PL: Qualche lavoro che reputi straordinario o ha un valore emotivo, d’affezione o di maggiore sperimentazione, senza togliere niente agli altri?
DL: Non saprei dare una preferenza. Sono tutti progetti molto differenti che nascono con persone con le quali spesso mantengo una relazione nel tempo. Ci tengo a dire che lavoriamo molto anche con l’estero: Giappone, Francia, Germania, Canada, Messico, ma la relazione più importante è con il Brasile, nata alla fine degli anni novanta. Ecco un esempio potrebbe essere quando sono stata invitata alla Biennale di Sant’Andre, nello stato di San Paolo, dove ho presentato alcuni progetti di grande formato e la nostra produzione di libri d’artista che sono una parte molto importante della mia attività. In generale l’esperienza in Brasile, dove nel tempo ho tenuto workshop e conferenze, è stata molto positiva, infatti mi sono trasferita a San Paolo dal 2005 al 2009 e lì e iniziata una nuova fase del mio lavoro. San Paolo posso considerarla come la mia seconda casa.
PL: Ma come facevi in Brasile? Le tue macchine?
DL: È stato un periodo estremamente costruttivo della mia vita! Ero leggerissima. Non avevo un mio spazio-stamperia, mi appoggiavo ad altre strutture grazie a una rete di contatti e spesso lavoravo direttamente negli atelier degli artisti. Facevo molta consulenza e corsi di orientamento, un’attività che in Italia a tutt’oggi non è effettivamente riconosciuta. A San Paolo ho trovato a livello universitario, un senso critico molto interessante con una visione sulle cose, una sensibilità e una capacità di saper guardare oltre, possiamo dire un’apertura che non sempre ho trovato in Italia. Ho partecipato a diversi i progetti didattici, per esempio a un programma di due anni al Tomie Otake un centro per l’arte contemporanea. Il percorso era incentrato sulla formazione per insegnanti di ONG con laboratori a cui partecipavano anche gruppi di ragazzi adolescenti. C’erano due equipe coinvolte: una per la parte teorica e un'altra per la parte pratica, le strutture e le persone erano estremamente professionali e qualificate, quindi il Brasile mi ha insegnato molto, da un punto di vista professionale e umano.
PL: Però alla fine sei tornata in Italia…
DL: Sì, tenendo però sempre un piede in Brasile! Al mio rientro nel 2009 mi è stato commissionato un lavoro prestigioso. Ho curato e realizzato con il contributo di altri colleghi, il libro d’artista per la mostra personale di Emilio Isgrò Fratelli d’Italia (curata da Marco Meneguzzo) alla Galleria del Gruppo Credito Valtellinese di Milano.
PL: Vuoi dare un consiglio a un giovane che si vuole avvicinare questo mondo? Che percorso suggerisci di fare? È meglio andare a bottega?
DL: Può passare a trovarmi. Al momento ospito stagisti per uno o due mesi che arrivano da licei artistici, accademie o università come Naba.
PL: Facciamo la lista delle tecniche di stampa che realizzi qui nel tuo atelier…
DL: Calcografia quindi tecniche dirette e indirette, collografia, xilografia con matrice in cavo e rilievo, serigrafia e litografia con tutti i processi alternativi che si possono applicare a quello tradizionale. I supporti alternativi destano più interesse da parte dei giovani, per esempio ho fatto lavori estremamente affascinati con un artista, Pietro Bologna, che usa i processi fotografici come mezzo espressivo. Con lui ho realizzato Mio Malgrado, una serie di stampe in grande formato in gumprint.
PL: C’è una motivazione per cui la litografia è meno praticata?
DL: Levigare la pietra è un lavoro molto faticoso e più andiamo avanti e più tutto si sposta verso la leggerezza. Non so ancora fino a quando queste tecniche saranno utilizzate. Solo la rivalutazione dei processi può essere una strada per la loro sopravvivenza, perché il cambiamento è rapido. L’unico modo per salvare questo sapere è (forse) partire dalla tecnologia per poi tornare verso questa pratica. Nel 2016 grazie alla collaborazione con Open Dot un un fab lab di Milano, ho attivato un percorso che prevedeva l’interazione tra macchinari a controllo numerico e le tecniche di stampa. Open Dot è stato il primo fab lab che mi ha invitato a ideare un programma curato insieme con Claude Marzotto dove abbiamo sperimentato per un anno intero, producendo matrici incise in lasercut o con stampati 3D. Ci siamo molto divertiti e abbiamo fatto innumerevoli test con diversi supporti e poi stampato con i torchi a mano. Grazie a Base abbiamo poi inaugurato una mostra dove sono state esposte tutte le nostre sperimentazioni affiancate da alcune applicazioni. Vorrei spiegarmi meglio. Il mio interesse era trovare, dopo questi svariati esperimenti con matrici digitali, delle vere applicazioni. Quindi dopo questa fase di sperimentazione, ho invitato alcuni artisti a realizzare un proprio progetto e a partecipare alla stessa mostra per dare una visione completa su questi nuovi processi e sulle loro potenzialità.
PL: Fammi qualche esempio…
DL: Abbiamo realizzato un libro che sembra uscito dalla tradizione francese d’inizio ‘900. Lo chiamo lingottino perché è super prezioso essendo il primo esempio di questa tecnica inedita: tutte le matrici sono realizzate in lasercut su linoleum e stampate al torchio a mano, in doppia battuta. Forse non ha molto senso entrare nel tecnicismo ma il risultato: una stampa data dalla fusione di due colori grazie a due procedimenti d’inchiostrazione. L’aspetto interessante sono le laserature che permettono di ricreare delle immagini con un’ottima resa fotografica, cosa che il processo manuale non permette: i processi calcografici e xilografici si mescolano. La ricerca e l’esplorazione nel mondo digitale riapre in maniera inaspettata nuove potenzialità della stessa stampa originale. Dopo questa esperienza ho stretto una collaborazione con di Fab Lab di Bergamo che ho conosciuto grazie a Marco Mancuso durante un seminario organizzato tra il dipartimento digitale e il dipartimento di grafica, guidato da Cinzia Benigni, dell’Accademia Carrara di Bergamo. Con loro riusciamo persino a lavorare a distanza, tanta è ormai la sintonia. Solo in due occasioni durante le Digital Week i loro macchinari sono fisicamente entrati all’interno dell’atelier.
PL: Quindi il tuo lavoro in questo momento è orientato molto nella ricerca con le nuove tecnologie?
DL: Sì, ma non solo. La parte tradizionale resta un punto fermo anche se tutto si mescola e le percentuali di equilibrio tra questi due mondi dipendono dalla progettualità dell’artista. È un mix di tutto e in ogni caso ti fai i muscoli (risate): tagli la carta, la bagni, sollevi matrici di metallo, le stampi girando la stella del torchio e poi riponi il foglio sotto i cartoni, studi i materiali in maniera fisica. Tutto si trasforma. Se per esempio devo stampare su seta, cuoio, legno o con diversi tipi di carta, tutti questi materiali ti costringono a dei procedimenti diversi. Quello che intendo dire è che la scelta tecnica va di pari passo con la scelta poetica e con la funzionalità: il linguaggio e la visione di un artista devono poi entrare in uno spazio fisico. Per esempio un lavoro che ho realizzato con l’artista giapponese Kaori Miyayama era composto da lunghissimi drappi di seta stampati, installati come un labirinto all’interno di un palazzo settecentesco. Ormai nell’arte c’è una compresenza di media che va dal video al supporto fisico, per questo motivo hai a che fare con tutti i sensi. La relazione con l’artista diventa di conseguenza molto importante per cercare di capire il suo linguaggio e fino a che punto è autonomo nell’uso delle tecniche.
PL: Che caratteristiche deve avere una persona che vuole fare questo tuo lavoro?
DL: Penso ci voglia una certa sensibilità, curiosità e voglia di imparare e soprattutto di mettersi in gioco tutti i giorni. Ogni artista è un mondo diverso con un approccio verso la materia. Ci sono persone che vengono qui per imparare a stampare e si fermano sul piano puramente tecnico. Altre invece hanno una sensibilità particolare, direi la capacità di ascolto. È rara ma capita, è quello che fa la differenza. È importante saper ascoltare e capire l’altro. Tu sei uno strumento per l’artista al pari delle macchine, devi metterti a sua disposizione per poterlo condurre nella direzione più adeguata.
PL: Ma poi l’artista sperimenta in prima persona?
DL: Certo. Nella maggior parte dei casi l’artista entra in tutte le fasi di realizzazione e può agire direttamente anche quando siamo noi a subentrare. Come avrai visto nel sito c’è una parte dedicata ai servizi che offriamo con due sezioni: una dove abbiamo inserito una selezione di progetti e l’altra con un campionario delle tecniche che è stato studiato non tanto in base alla loro definizione —informazioni di cui ormai il web è pieno — ma secondo i differenti approcci.
PL: Hai mai collaborato con il mondo della moda? Perché questa artigianalità così presente nel tuo lavoro richiama la manifattura di un abito.
DL: È un ambito dove ci sono molte possibilità inesplorate. Ho fatto nel passato una collezione di abiti in seta stampati a puntasecca. In questo settore si potrebbero fare ottime sperimentazioni con inchiostri per tessuti o con la stampa su cuoio naturale o ecologico, come mi è capitato con l’artista Francesca Gagliardi dove ho stampato e riprodotto un crochet su degli scudi in cuoio.
PL: Puoi parlarmi dei tuoi corsi?
DL: Ti premetto che la maggior parte della didattica è stata fatta all’estero. Negli ultimi anni ho proposto nel mio atelier dei workshop condividendoli con altri professionisti come Cristina Balbiano d’Aramengo che è la mia legatrice di fiducia. Per esempio Moonscope è stato un ciclo di workshop dedicato alla sperimentazione tra metodi tradizionali e nuove tecnologie. Sono venuti gruppi anche dal Brasile accompagnati da Helena Freddi docente dell’università di Belas Artes e proprietaria dell’atelier HF di Sao Paolo per corsi dedicati alla produzione di libri d’artista.
PL: Quali sono (Covid permettendo) i tuoi programmi futuri?
DL: Completare il mio programma per il venticinquesimo che cadeva nel 2020, rimandato a causa della pandemia. Avevamo studiato molti eventi nella nostra A14ROOM: progetti di scambio con il Brasile ed esposizioni del nostro archivio. Posso anticiparti che farò un talk durante la manifestazione The Art Chapter – milano art book fair dedicata al libro d’artista da Base (sabato 20 novembre alle h 15) insieme a Cristina Balbiano d’Aramengo dove parleremo della nostra lunga collaborazione e finalmente potrò utilizzare il mio nuovo sito di A14 per mostrare i miei lavori al posto delle slide!
PL: Grazie Daniela per la tua disponibilità a parlare del tuo lavoro come produttrice e ricercatrice nei progetti di stampa e di editoria per l’arte contemporanea.
Daniela Lorenzi è stampatrice d’arte, consulente e titolare dell’atelier A14 di Milano. Da oltre venticinque anni si dedica alla produzione, ricerca e diffusione di progetti con artisti nell’ambito della stampa originale e dell’editoria d’arte.
Realizza edizioni a tiratura limitata, libri d’artista, opere installative per istituzioni, musei, gallerie, committenze private italiane e internazionali. A14 è uno spazio fisico nel cuore di Milano che integra l’atmosfera tipica delle storiche stamperie d’arte con le potenzialità delle nuove tecnologie digitali.
Nel lavoro di Daniela Lorenzi ritroviamo un saper fare antichissimo che passa ancora dalla stampa manuale con i torchi calcografici, utilizzata per imprimere segni su carta attraverso una matrice originale incisa con punte, sgorbie o altri processi alchemici esattamente come si realizzava nel '400.
Grazie alla sperimentazione di Daniela e alla continua ricerca da parte degli artisti, queste tecniche e processi di stampa si sono evolute e mutate nel tempo per confrontarsi con la nuova frontiera tecnologica della computer graphic. In questa intervista ci racconta alcuni momenti del suo percorso e come la nuova dimensione digitale sia entrata nel suo lavoro a pieno titolo.
Paola Lambardi: Ciao Daniela ci racconti come hai iniziato a fare questo lavoro?
Daniela Lorenzi: Potrei dire per caso ma nulla è mai un caso. Ho frequentato il liceo artistico Hajech a Milano e un’estate, uno dei miei insegnanti Mario Benedetti, mi ha proposto di raggiungerlo nell’isola di Oland in Svezia, dove teneva dei laboratori di stampa e incisione. Era il 1987. Ho fatto l’Interrail e sono partita. Avevo 17 anni e in questa occasione ho scoperto la stampa e l’incisione. Ho continuato gli studi all’Accademia di Brera dove nel frattempo Mario Benedetti era diventato docente e con il quale ho continuato questo percorso. Per un certo periodo ho anche stampato nel suo studio. Come dico sempre: sono stata contagiata e non sono più guarita. All’epoca, grazie a un amico che faceva il fotografo, abbiamo costruito un tavolo basculante per spostare le grandi pitture materiche di Mario Benedetti e come compenso ci ha regalato un torchio. Ho cominciato così a produrre stampe calcografiche con matrici in metallo in tiratura limitata anche per altri studenti e artisti dell’Accademia. Questo torchio mi ha seguito in tutti gli spostamenti fino ad approdare nel 1994 in uno spazio in corso San Gottardo al 14 che condividevo con un gruppo di amici artisti. All’inizio il gruppo era eterogeneo: c’era un fotografo, uno scenografo, alcuni grafici. Con il passare del tempo la stampa ha preso più spazio e il gruppo si è trasformato di conseguenza. Dal 1995 sino al 2005 è diventata la sede ufficiale della mia stamperia, conosciuta come Atelier 14 e poi come Atelier Quattordici - Grafica Upiglio 22250. In quel periodo ho condiviso la società con il nipote di Giorgio Upiglio che avevo conosciuto quando stavo scrivendo la mia tesi di laurea incentrata sul tema della relazione tra artista e stampatore. Giorgio Upiglio è stato uno dei più importanti stampatori italiani riconosciuto a livello internazionale. Purtroppo è morto qualche anno fa, chiudendo un capitolo importante per la grafica in Italia. È sempre stato un grandissimo sperimentatore e ha lavorato con grandi artisti: Duchamp, De Chirico, Paladino, Burri e moltissimi altri. Era un periodo storico in cui la grafica aveva ancora un valore importante nel collezionismo. Uno dei periodi più intensi passati nella sua stamperia in via Olmetto è stato quando abbiamo stampato le matrici di Wilfredo Lam un lavoro lunghissimo durato almeno un paio di anni.
PL: Cosa è cambiato e cos’è una stamperia d’arte oggi?
DL: L’esperienza con Upiglio mi ha lasciato una grande apertura verso la sperimentazione tecnica e soprattutto il saper creare una relazione tra le persone che permette di creare nuovi processi. Nel tempo le cose sono molto cambiate: la relazione con lo spazio e con questi strumenti è ormai ibrida. Ora si entra dalla dimensione tecnologica per raggiungere a ritroso la stampa tradizionale. La digitalizzazione comporta una differente forma mentis. Per esempio lavorando con i ragazzi mi sono accorta che a volte non sono pronti a un approccio diretto e fisico con il materiale. Allenando la loro sensibilità attraverso queste tecniche, possono capire e imparare moltissimo, non solo a conoscere la carta e le sue reazioni chimico- fisiche ma che esistono dei tempi di preparazione, di asciugatura e questo approccio serve per riattivare i loro sensi che il mondo digitale riduce molto.
PL: In effetti stai parlando di un grosso problema che hanno tutti i nativi digitali…
DL: Direi piuttosto che hanno un diverso approccio. Io sono l’ultima generazione che ha potuto rubare dalle generazioni precedenti, legate appunto al fare dell’artigiano. L’opera d’arte stessa è cambiata da Duchamp in poi. L’opera d’arte e il processo di lavorazione è spesso delegato ad altri. Per tornare alla stampa artistica e alle stamperie, questi luoghi sono stati gli ultimi a mantenere un fare antico perché legati a un’ortodossia dove la matrice doveva essere creata dall’artista altrimenti ne andava del valore e dell’originalità dell’opera stessa. Fatte queste premesse, è chiaro che vivendo nella contemporaneità, si può o, meglio ancora, si deve dire qualcosa di nuovo con queste tecniche di stampa tradizionali.
PL: Alla luce dei cambiamenti artistici, chi si rivolge a te?
DL: Questi nuovi scenari hanno trasformato il mio lavoro. Posso dire che non mi sono mai considerata stampatore e basta. Sento di essere più vicina a un ricercatore perché mi interessa entrare nei percorsi, nei contenuti e nei progetti. Se qualcuno desidera una stampa da una matrice tradizionale non ho nessun problema a realizzarla, visto che le mie ore di volo arrivano da lì. Ciò che mi interessa di più è entrare in relazione. Il mio contributo è aiutare a realizzare un’idea, un progetto e c’è spazio per tutti: artisti, illustratori, grafici, designer, fotografi anche persone non necessariamente del settore. Tutto ovviamente passa attraverso i nostri strumenti o dalle competenze di colleghi professionisti con i quali abbiamo un sodalizio collaborativo. Dico siamo, perché in atelier ho sempre stagisti o collaboratori che chiamo a progetto. In particolare in questi anni Georgia Garofalo mi affianca quasi quotidianamente.
PL: C’è un aneddoto, un lavoro particolare che vuoi raccontare?
DL: Sono davvero tanti i progetti che ho realizzato in 25 anni e con tantissimi artisti…
PL: Qualche lavoro che reputi straordinario o ha un valore emotivo, d’affezione o di maggiore sperimentazione, senza togliere niente agli altri?
DL: Non saprei dare una preferenza. Sono tutti progetti molto differenti che nascono con persone con le quali spesso mantengo una relazione nel tempo. Ci tengo a dire che lavoriamo molto anche con l’estero: Giappone, Francia, Germania, Canada, Messico, ma la relazione più importante è con il Brasile, nata alla fine degli anni novanta. Ecco un esempio potrebbe essere quando sono stata invitata alla Biennale di Sant’Andre, nello stato di San Paolo, dove ho presentato alcuni progetti di grande formato e la nostra produzione di libri d’artista che sono una parte molto importante della mia attività. In generale l’esperienza in Brasile, dove nel tempo ho tenuto workshop e conferenze, è stata molto positiva, infatti mi sono trasferita a San Paolo dal 2005 al 2009 e lì e iniziata una nuova fase del mio lavoro. San Paolo posso considerarla come la mia seconda casa.
PL: Ma come facevi in Brasile? Le tue macchine?
DL: È stato un periodo estremamente costruttivo della mia vita! Ero leggerissima. Non avevo un mio spazio-stamperia, mi appoggiavo ad altre strutture grazie a una rete di contatti e spesso lavoravo direttamente negli atelier degli artisti. Facevo molta consulenza e corsi di orientamento, un’attività che in Italia a tutt’oggi non è effettivamente riconosciuta. A San Paolo ho trovato a livello universitario, un senso critico molto interessante con una visione sulle cose, una sensibilità e una capacità di saper guardare oltre, possiamo dire un’apertura che non sempre ho trovato in Italia. Ho partecipato a diversi i progetti didattici, per esempio a un programma di due anni al Tomie Otake un centro per l’arte contemporanea. Il percorso era incentrato sulla formazione per insegnanti di ONG con laboratori a cui partecipavano anche gruppi di ragazzi adolescenti. C’erano due equipe coinvolte: una per la parte teorica e un'altra per la parte pratica, le strutture e le persone erano estremamente professionali e qualificate, quindi il Brasile mi ha insegnato molto, da un punto di vista professionale e umano.
PL: Però alla fine sei tornata in Italia…
DL: Sì, tenendo però sempre un piede in Brasile! Al mio rientro nel 2009 mi è stato commissionato un lavoro prestigioso. Ho curato e realizzato con il contributo di altri colleghi, il libro d’artista per la mostra personale di Emilio Isgrò Fratelli d’Italia (curata da Marco Meneguzzo) alla Galleria del Gruppo Credito Valtellinese di Milano.
PL: Vuoi dare un consiglio a un giovane che si vuole avvicinare questo mondo? Che percorso suggerisci di fare? È meglio andare a bottega?
DL: Può passare a trovarmi. Al momento ospito stagisti per uno o due mesi che arrivano da licei artistici, accademie o università come Naba.
PL: Facciamo la lista delle tecniche di stampa che realizzi qui nel tuo atelier…
DL: Calcografia quindi tecniche dirette e indirette, collografia, xilografia con matrice in cavo e rilievo, serigrafia e litografia con tutti i processi alternativi che si possono applicare a quello tradizionale. I supporti alternativi destano più interesse da parte dei giovani, per esempio ho fatto lavori estremamente affascinati con un artista, Pietro Bologna, che usa i processi fotografici come mezzo espressivo. Con lui ho realizzato Mio Malgrado, una serie di stampe in grande formato in gumprint.
PL: C’è una motivazione per cui la litografia è meno praticata?
DL: Levigare la pietra è un lavoro molto faticoso e più andiamo avanti e più tutto si sposta verso la leggerezza. Non so ancora fino a quando queste tecniche saranno utilizzate. Solo la rivalutazione dei processi può essere una strada per la loro sopravvivenza, perché il cambiamento è rapido. L’unico modo per salvare questo sapere è (forse) partire dalla tecnologia per poi tornare verso questa pratica. Nel 2016 grazie alla collaborazione con Open Dot un un fab lab di Milano, ho attivato un percorso che prevedeva l’interazione tra macchinari a controllo numerico e le tecniche di stampa. Open Dot è stato il primo fab lab che mi ha invitato a ideare un programma curato insieme con Claude Marzotto dove abbiamo sperimentato per un anno intero, producendo matrici incise in lasercut o con stampati 3D. Ci siamo molto divertiti e abbiamo fatto innumerevoli test con diversi supporti e poi stampato con i torchi a mano. Grazie a Base abbiamo poi inaugurato una mostra dove sono state esposte tutte le nostre sperimentazioni affiancate da alcune applicazioni. Vorrei spiegarmi meglio. Il mio interesse era trovare, dopo questi svariati esperimenti con matrici digitali, delle vere applicazioni. Quindi dopo questa fase di sperimentazione, ho invitato alcuni artisti a realizzare un proprio progetto e a partecipare alla stessa mostra per dare una visione completa su questi nuovi processi e sulle loro potenzialità.
PL: Fammi qualche esempio…
DL: Abbiamo realizzato un libro che sembra uscito dalla tradizione francese d’inizio ‘900. Lo chiamo lingottino perché è super prezioso essendo il primo esempio di questa tecnica inedita: tutte le matrici sono realizzate in lasercut su linoleum e stampate al torchio a mano, in doppia battuta. Forse non ha molto senso entrare nel tecnicismo ma il risultato: una stampa data dalla fusione di due colori grazie a due procedimenti d’inchiostrazione. L’aspetto interessante sono le laserature che permettono di ricreare delle immagini con un’ottima resa fotografica, cosa che il processo manuale non permette: i processi calcografici e xilografici si mescolano. La ricerca e l’esplorazione nel mondo digitale riapre in maniera inaspettata nuove potenzialità della stessa stampa originale. Dopo questa esperienza ho stretto una collaborazione con di Fab Lab di Bergamo che ho conosciuto grazie a Marco Mancuso durante un seminario organizzato tra il dipartimento digitale e il dipartimento di grafica, guidato da Cinzia Benigni, dell’Accademia Carrara di Bergamo. Con loro riusciamo persino a lavorare a distanza, tanta è ormai la sintonia. Solo in due occasioni durante le Digital Week i loro macchinari sono fisicamente entrati all’interno dell’atelier.
PL: Quindi il tuo lavoro in questo momento è orientato molto nella ricerca con le nuove tecnologie?
DL: Sì, ma non solo. La parte tradizionale resta un punto fermo anche se tutto si mescola e le percentuali di equilibrio tra questi due mondi dipendono dalla progettualità dell’artista. È un mix di tutto e in ogni caso ti fai i muscoli (risate): tagli la carta, la bagni, sollevi matrici di metallo, le stampi girando la stella del torchio e poi riponi il foglio sotto i cartoni, studi i materiali in maniera fisica. Tutto si trasforma. Se per esempio devo stampare su seta, cuoio, legno o con diversi tipi di carta, tutti questi materiali ti costringono a dei procedimenti diversi. Quello che intendo dire è che la scelta tecnica va di pari passo con la scelta poetica e con la funzionalità: il linguaggio e la visione di un artista devono poi entrare in uno spazio fisico. Per esempio un lavoro che ho realizzato con l’artista giapponese Kaori Miyayama era composto da lunghissimi drappi di seta stampati, installati come un labirinto all’interno di un palazzo settecentesco. Ormai nell’arte c’è una compresenza di media che va dal video al supporto fisico, per questo motivo hai a che fare con tutti i sensi. La relazione con l’artista diventa di conseguenza molto importante per cercare di capire il suo linguaggio e fino a che punto è autonomo nell’uso delle tecniche.
PL: Che caratteristiche deve avere una persona che vuole fare questo tuo lavoro?
DL: Penso ci voglia una certa sensibilità, curiosità e voglia di imparare e soprattutto di mettersi in gioco tutti i giorni. Ogni artista è un mondo diverso con un approccio verso la materia. Ci sono persone che vengono qui per imparare a stampare e si fermano sul piano puramente tecnico. Altre invece hanno una sensibilità particolare, direi la capacità di ascolto. È rara ma capita, è quello che fa la differenza. È importante saper ascoltare e capire l’altro. Tu sei uno strumento per l’artista al pari delle macchine, devi metterti a sua disposizione per poterlo condurre nella direzione più adeguata.
PL: Ma poi l’artista sperimenta in prima persona?
DL: Certo. Nella maggior parte dei casi l’artista entra in tutte le fasi di realizzazione e può agire direttamente anche quando siamo noi a subentrare. Come avrai visto nel sito c’è una parte dedicata ai servizi che offriamo con due sezioni: una dove abbiamo inserito una selezione di progetti e l’altra con un campionario delle tecniche che è stato studiato non tanto in base alla loro definizione —informazioni di cui ormai il web è pieno — ma secondo i differenti approcci.
PL: Hai mai collaborato con il mondo della moda? Perché questa artigianalità così presente nel tuo lavoro richiama la manifattura di un abito.
DL: È un ambito dove ci sono molte possibilità inesplorate. Ho fatto nel passato una collezione di abiti in seta stampati a puntasecca. In questo settore si potrebbero fare ottime sperimentazioni con inchiostri per tessuti o con la stampa su cuoio naturale o ecologico, come mi è capitato con l’artista Francesca Gagliardi dove ho stampato e riprodotto un crochet su degli scudi in cuoio.
PL: Puoi parlarmi dei tuoi corsi?
DL: Ti premetto che la maggior parte della didattica è stata fatta all’estero. Negli ultimi anni ho proposto nel mio atelier dei workshop condividendoli con altri professionisti come Cristina Balbiano d’Aramengo che è la mia legatrice di fiducia. Per esempio Moonscope è stato un ciclo di workshop dedicato alla sperimentazione tra metodi tradizionali e nuove tecnologie. Sono venuti gruppi anche dal Brasile accompagnati da Helena Freddi docente dell’università di Belas Artes e proprietaria dell’atelier HF di Sao Paolo per corsi dedicati alla produzione di libri d’artista.
PL: Quali sono (Covid permettendo) i tuoi programmi futuri?
DL: Completare il mio programma per il venticinquesimo che cadeva nel 2020, rimandato a causa della pandemia. Avevamo studiato molti eventi nella nostra A14ROOM: progetti di scambio con il Brasile ed esposizioni del nostro archivio. Posso anticiparti che farò un talk durante la manifestazione The Art Chapter – milano art book fair dedicata al libro d’artista da Base (sabato 20 novembre alle h 15) insieme a Cristina Balbiano d’Aramengo dove parleremo della nostra lunga collaborazione e finalmente potrò utilizzare il mio nuovo sito di A14 per mostrare i miei lavori al posto delle slide!
PL: Grazie Daniela per la tua disponibilità a parlare del tuo lavoro come produttrice e ricercatrice nei progetti di stampa e di editoria per l’arte contemporanea.